C’è un particolare momento nella vita di tanti ragazzi lucani in cui, accantonate le ansie infantili del Natale, dei compleanni e dei doni da ricevere, il giorno più atteso dell’anno diventa all’improvviso quello di San Giuseppe – il giorno (o la notte) dei falò, forse l’appuntamento rituale più antico fra quelli che accomunano le popolazioni dell’Appennino a queste latitudini.
La sera del 18 marzo, e fino al sorgere del sole, gli abitanti di ciascun rione (o quartiere) di ogni comune si riuniscono in un punto stabilito del quartiere e qui danno vita a un grande falò attorno a cui far festa tutti insieme tra cibo, musica, danze, e il cielo stellato.
Le origini della festa
La corrispondenza tra questa ricorrenza e la data riservata dalla liturgia cristiana al Santo sposo di Maria non tragga però in inganno: la festa ha in realtà origini molto più remote, e affonda le radici nei riti arcaici di fertilità della Terra celebrati da pastori e contadini in prossimità dell’equinozio di primavera: essi accendevano grandi falò propiziatori per aggraziarsi le forze della natura in vista della primavera, stagione dei raccolti e simbolo di rinascita. E il fuoco stesso era visto come simbolo di nuova vita, nata dalle ceneri di quella passata.
I preparativi
Nella sua evoluzione contemporanea, la prassi della festa ha assunto comunque contorni più espressamente “ricreativi”. I preparativi iniziano qualche giorno prima, quando i ragazzi del quartiere si spostano per le vie del paese, di solito spingendo una carriola in cui raccogliere casa per casa la legna che servirà a costruire il falò.
L’ultimo giorno viene allora il turno dei “grandi”, che si spingono nei boschi o nelle montagne dei dintorni a raccogliere le “fascìne” di ginestra che serviranno a ravvivare il fuoco a intervalli regolari, tenendo la fiamma alta per tutta la notte.
I falò nei diversi paesi
Le tradizioni specifiche differiscono nei particolari di paese in paese, ma conservano una forte base comune: solitamente, attorno al falò si balla al ritmo della musica popolare suonata da fisarmoniche e organetti di improvvisati musicisti autoctoni; si degustano torte rustiche, piatti tipici, nonché le famose zeppole di San Giuseppe, di rado accompagnate da bevande diverse dal vino locale.
L’altezza raggiunta dai “fucanoj”, la loro “capacità” di arrampicarsi verso il cielo, costituisce una discriminante pressoché oggettiva nella riuscita della festa: in alcuni paesi è indetta annualmente una gara ufficiale tra i diversi rioni, con tanto di giuria preposta a valutare e premiare il fuoco migliore.
A fine nottata è tradizione che ognuno raccolga della brace e ne porti un po’ a casa, aiutandosi con un badile, per rimpinguare il camino in segno di futura prosperità.